Bret Anthony Johnston sa il fatto suo e lo dimostra dalla prima all’ultima pagina del suo primo romanzo dal titolo “Ricordami così” (in lingua originale, Remember me like this). Attraverso una scrittura precisa, ricca di particolari, che trasmette per immagini, acchiappa il lettore e non lo lascia più andare, immergendolo totalmente nelle vicende di una famiglia americana.
La famiglia Campbell vive nel Texas meridionale, in una cittadina immaginaria situata nella baia di Corpus Christi (che esiste eccome!) e qui subisce uno degli avvenimenti più sconvolgenti che si possa immaginare: la perdita di uno dei due figli. Justin Campbell, infatti, un giorno esce di casa e non torna più. Il romanzo non comincia però da qui, ma da 4 anni dopo questo avvenimento; 4 anni in cui la famiglia lo ha sempre cercato poiché il suo corpo non è mai stato ritrovato e non si può quindi credere che sia effettivamente morto. Anni in cui tutto va in malora e gli stessi legami fra i restanti membri della famiglia cedono sotto il peso di questa scomparsa.
E poi, una mattina, Justin viene ritrovato.
Se mi stai odiando, non prendertela con me perché finora non ti ho spoilerato nulla. Prenditela piuttosto con l’editore che ha deciso di spiattellare tutto ciò sulla quarta di copertina (in effetti, io qualche accidente gliel’ho tirato). Detto questo, se non hai ancora letto il libro e intendi farlo, non leggere oltre.
Il ritorno di Justin è il vero oggetto del romanzo, non il suo rapimento.
Dei quattro anni in cui Justin è stato tenuto “prigioniero” non sapremo granché perché non è questo che Johnston vuole raccontarci. L’autore si concentra invece sull’esplorazione dell’emotività dei personaggi coinvolti, ciascuno dei quali ha una sua voce e un suo modo di “sopravvivere” agli eventi e alle loro conseguenze. Di fatto, la rivelazione arriva quando il lettore, insieme ai personaggi, si rende conto che il ritorno di Justin è ancor più sconvolgente della sua mancanza.
Ecco l’elemento inconcepibile e debilitante: era possibile abituarsi a qualcosa che un tempo era parso orribile e alieno. Era possibile avvertire nel proprio corpo una presenza estranea, sopportare il dolore che causava e la sua natura minacciosa, e non accorgersi che si stava cristallizzando.
Avendo Justin sott’occhio tutto il giorno, i familiari non riescono più a ignorare l’entità degli abusi subiti e delle tracce che questi hanno e avranno sul ragazzo. Ci pensano, ci ricamano sopra e si torturano immaginando il rapitore con Justin.
È qui che Bret Anthony Johnston piazza il suo colpo migliore. Nonostante si riesca a percepire viva l’ingombrante presenza del rapitore, lui non compare mai in prima persona, non parla mai, non hai idea di cosa faccia, di cosa pensi, di come viva la situazione o se si sia pentito delle sue azioni. Dwight Buford compare soltanto nei pensieri dei protagonisti ed è attraverso il loro sguardo che anche tu lo “vedi”. Ti pone inevitabilmente davanti a sempre più domande, rendendosi così onnipresente nonostante, in effetti, lui non ci sia.
L’antagonista della storia è solo un’altra assenza, ancora più angosciante e temibile di quella che mette in moto il racconto.