Se ne rimase immobile con questi desideri, e con il sentimento che la vita sia un insieme di attimi che mai una sola volta, neanche una sola volta riusciamo a controllare, che sfuggono, anticipano o ritardano senza preavviso e si prendono gioco di chi tenta di ingannare il dolore riempiendo il cuore di nuvole e cielo.
Nel chiudere questo libro, dopo averlo finito, credo non si possa fare a meno di pensare che ogni dolore che si compie è un dolore perfetto. Infatti, in questo romanzo, Ugo Riccarelli evidenzia la funzione evolutiva del dolore che per quanto sgradevole non è mai del tutto negativo e, anzi, consente di conoscere e conoscersi, di ripensare alla propria vita con occhi diversi e cambiare per migliorare. Il dolore come evento che mina le nostre vite, ma che contemporaneamente è spinta propulsiva per andare avanti.
“Il dolore perfetto” è una saga familiare, che si svolge in Toscana a partire dalla fine dell’Ottocento, e della saga familiare riporta molti elementi tipici: la moltitudine di personaggi, le cui storie di intrecciano e avvitano con un continuo ritornare di nomi nel susseguirsi delle varie generazioni. Mondi interiori, sentimenti e sensazioni, che interpretano il contesto circostante. Il piccolo paese in cui si svolgono le vicende che diventa finestra sul mondo per dare spazio agli eventi che hanno fatto la storia, in questo caso dall’avvento del treno ai moti anarchici di fine Ottocento, dalla prima guerra mondiale fino al boom economico del secondo dopoguerra.
Cambiano le stagioni e tutto torna e forse pensare di sfuggire a questo rotolare è cosa ingenua, debole luce che contro il tempo non vale.
Non solo! Riccarelli si accosta qui a Marquez, spolverando con un po’ di magia il concatenarsi degli eventi, le circostanze e i personaggi che le popolano, anche se non si può esattamente parlare di realismo magico (il che, almeno per me, non è un punto a suo sfavore).
Pur con uno stile a tratti troppo ricercato, fino a diventare smaccatamente artificioso, Riccarelli riesce a coinvolgere il lettore, a trasportarlo a Colle, a fargli respirare l’aria paludosa del Padule, a fargli sentire lo sferragliare dei primi treni e il rombare dei primi motori a scoppio. Più di ogni altra cosa riesce a sospendere il tempo frenetico in cui viviamo per reinstaurare un lento ritmo antico. Quest’ultimo aspetto è quello che mi ha fatto davvero apprezzare questa lettura; lentezza come grande pregio, come un ritorno a quelle radici che non abbiamo quasi più tempo di rispolverare.
Anch’io l’ho letto e condivido il tuo pensiero. E’ piaciuto molto anche a me!
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Complimenti per il bell’articolo. Dici sempre tanto senza fare spoiler e io lo apprezzo tantissimo.
Non conoscevo questo libro, ma mi hai incuriosita e penso che lo leggerò non appena ho finito i libri che ho sul comodino 🙂
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Grazie mille! 🙂
Sorge spontanea la domanda… cos’hai sul comodino?
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In questo momento ho “Dance Dance Dance” di Murakami 😉
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L’ho letto e amato quest’estate.
Non ho trovato affatto artificioso lo stile, anzi, mi chiedo come sia possibile scrivere in modo abbastanza antico nel XIX secolo mantenendo una voce così autentica.
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In alcuni passaggi ho trovato la frase molto “costruita”, ma si tratta di brevi parentesi in un libro che ti rapisce per stile e contenuto.
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