È una frase fatta, tra quelle che probabilmente sentiamo dire più spesso: “I soldi non fanno la felicità“.
E benché si possa certo ammettere che sia sicuramente preferibile non essere poveri in canna, quella frase fatta è alla base di un concetto che ho scoperto di recente e che auspico diventi parte delle nostre vite al più presto: sto parlando del concetto di Felicità Interna Lorda.
Coniata negli anni ’70 dall’allora Re del Bhutan, un Paese che a guardalo dal punto di vista occidentale è un paese poverissimo, la FIL (e qui si rende evidente l’ammiccamento al solo metodo che in Occidente utilizziamo per misurare la ricchezza, ossia il PIL – Prodotto Interno Lordo) è un approccio di sviluppo che mira ad accrescere la felicità delle persone, piuttosto che soltanto la loro tangibile ricchezza, tenendo dunque conto del fatto che il singolo individuo ha sì bisogni di natura materiale, ma anche di natura fisica (l’ambiente), culturale e spirituale. Un approccio che il Bhutan segue dal 1972 e che lo rende il “Paese più felice del mondo“, mentre da noi la Treccani ha introdotto questa nozione nel suo dizionario di Economia e Finanza soltanto nel 2012. Per non parlare del fatto che, in Italia, siamo lontanissimi dal tenere in considerazione la Felicità Interna Lorda come una linea guida per lo sviluppo del nostro Paese. Non a caso, infatti, siamo ancora fuori dalla TOP 30 del World Happiness Report, dietro a paesi come Israele, Guatemala e Taiwan.
Ovviamente non è che esista una formula infallibile per distribuire equamente felicità e benessere, ma sarebbe bello se, nel pensare i prossimi decenni, noi tutti (e soprattutto chi ci governa) interiorizzassimo questo concetto, abbandonando sempre di più la via del consumismo e valorizzando maggiormente la difesa dell’ambiente in cui viviamo, lo splendido patrimonio artistico e culturale che solo in Italia abbiamo, la tutela della salute, la qualità delle nostre relazioni sociali, l’intero sistema educativo e del mondo del lavoro, dove a contare dovrebbe finalmente essere la qualità del lavoro piuttosto che il numero delle eterne e stressanti ore passate in ufficio o in fabbrica, riducendo infine la benedetta forbice reddituale che colloca l’Italia all’ultimo posto della classifica degli Stati europei più popolosi per differenza di reddito tra i ricchi e i poveri (l’Oxfam ha stimato che nel Belpaese il 5% più ricco degli italiani possiede da solo della stessa quota di patrimonio posseduta dal 90% più povero. Già solo a leggere questo non è che uno si senta felice subito, a meno che non faccia parte di quel 5%).
In un mondo dove Oriente e Occidente non sono mai stati così vicini (nel bene e nel male, vedi la pandemia in corso) è ora di smettere di pensare che tutto il pianeta debba adeguarsi allo standard occidentale. Apriamoci alla multiculturalità e prendiamo il buono che possiamo trovare in ogni Paese del mondo, fosse anche il Bhutan. Come ha detto il Dalai Lama, “il fine dello sviluppo economico dovrebbe essere quello di facilitare e non di ostacolare il raggiungimento della felicità” e, a pensarci bene, la cosa di per sé è più che logica; d’altra parte se pensi alla parola “sviluppo” scommetto che ti viene in mente qualcosa che ha dei risvolti positivi, che porta miglioramenti.
Io ci voglio credere, voglio credere che pian piano lo standard occidentale terrà sempre meno conto degli indici consumistici e sempre più conto del benessere generale delle persone. Voglio credere che l’idea di Felicità Interna Lorda possa entrare prepotentemente nelle nostre vite, diventare l’insieme universo che ricomprende il sottoinsieme del Prodotto Interno Lordo e che, equilibrando i vari elementi, si arrivi a una ridefinizione delle priorità della nostra società.