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Castelli di rabbia

È una specie di gioco. Serve quando hai lo schifo addosso, che proprio non c’è verso di togliertelo. Allora ti rannicchi da qualche parte, chiudi gli occhi e inizi ad inventarti delle storie. Quel che ti viene. Ma lo devi fare bene. Con tutti i particolari. E quello che la gente dice, e i colori, e i suoni. Tutto.
E lo schifo poco a poco se ne va. Poi torna, è ovvio, ma intanto, per un po’, l’hai fregato.

“Castelli di Rabbia” è il romanzo d’esordio di Alessandro Baricco, autore con cui ho un rapporto di amore-odio viscerale. Tanto per capirci, in generale mal sopporto il Baricco persona, principalmente per la tracotanza che esuda dalla sua persona quando viene intervistato, ma alcuni suoi libri sono veramente belli e vale proprio la pena di leggerli. Tra questi, “Castelli di rabbia” è sicuramente uno dei miei preferiti e quello che, in assoluto, mi ha lasciato più perplessa, perlomeno inizialmente.

Ambientato nel diciannovesimo secolo nell’immaginaria cittadina di Quinnipak, il romanzo assomiglia a un album di foto piuttosto che a una storia con una narrazione lineare e ciascuna delle istantanee ritrae un abitante del paese, con i suoi sogni, le sue aspirazioni, i suoi più intimi desideri. L’intreccio è un susseguirsi di visioni che appaiono scollegate fra loro; leggere “Castelli di Rabbia” trasmette la stessa sensazione che hai la mattina quando ti svegli e riesci a ricordarti i sogni che hai fatto la notte, quello stesso leggero senso di smarrimento di fronte all’evoluzione che la tua produzione onirica ha avuto durante il sonno.

E come quando capisci il senso che aveva il tuo sogno, leggendo le ultime 5 pagine del libro ti arriva improvvisamente addosso una coscienza tutta nuova. Una consapevolezza diversa, una illuminazione. I pezzi del puzzle rovesciati a casaccio tra le pagine si ricompongono e danno vita a un quadro perfetto.

In perfetto stile baricchiano (con i suoi pro e contro), fatto di frasi ripetute allo sfinimento, a volte esageratamente artificiose, di fluttuanti immagini surreali e di sprazzi di genialità, questo romanzo senza una vera e propria trama, rivela il suo tutt’altro che banale senso nelle ultimissime pagine. Dunque, il consiglio non può che essere questo: leggilo tutto d’un fiato. Prenditi un giorno e leggilo tutto. Finzione e realtà, assenza di senso e significato, le prime 240 pagine e le ultime 5; tutto deve andare assieme e il viaggio, credimi, è molto, molto interessante.

E tu, hai già letto questo o altri libri di Baricco?
Ti piace il suo stile? Se dovessi consigliarne uno solo, quale sarebbe?