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Ma le emozioni delle mamme chi le valida?

Faccio una premessa: l’altro giorno stavo facendo un giro su Instagram e mi sono capitati, back-to-back, due reel che mi hanno sbattuto in faccia una così grande contraddizione che ne voglio parlare qui con te. Il primo reel era informativo, dava qualche consiglio utile su come comunicare con un bambino di due/tre anni e sull’importanza di validare le emozioni. Il secondo, invece, era un’invettiva contro le “mamme che si lamentano” (al grido di “you chose to have kids” ovvero “lo hai scelto tu di avere figli”). Non ho avuto la prontezza di spirito di salvarli, la riflessione mi si è accesa in testa in un secondo tempo.

Il primo reel mi ha fatto molto riflettere su quello che vorrei fare per BabyL con la sua educazione. Sono infatti convintissima di voler dare il giusto rilievo alla validazione e gestione delle emozioni. Tanto per capirci, validare significa riconoscere una determinata emozione come legittima, anche se a noi genitori può sembrare esagerata o inappropriata (e si lavora poi sulle modalità di espressione, ma non voglio addentrarmi nel discorso, trovate montagne di articoli specialistici su Google). Credo sia fondamentale aiutare il bambino a riconoscere, esprimere e successivamente regolare quello che sente, sia che si tratti di emozioni tradizionalmente considerate come “positive” o, al contrario, come “negative” (e lo metto tra virgolette perché è poi tutta da vedere questa distinzione culturale che ne facciamo). Nascondere sotto il tappeto o sminuire/invalidare sensazioni come rabbia, paura o tristezza, per quanto possa farci sentire a disagio il doverle gestire o vederle negli occhi del nostro bambino, non serve a nulla (e ce lo insegna benissimo anche il film “Inside Out” della Pixar); anzi, a lungo andare può solo produrre effetti nefasti. Tra l’altro, se sei qui con me da un po’, sai che ci tengo particolarmente a questo argomento e infatti, nel corso degli anni, vi ho dedicato più post come, ad esempio, questo e questo.

Ma perché ho parlato di contraddizione in apertura di post? Ebbene, dopo la visione del secondo reel mi è venuto spontaneo chiedermi: se ormai la società tutta conviene sull’importanza della validazione delle emozioni (al di là del fatto che, come ho detto, per me è giustissimo intraprendere quel percorso) in primis con i bambini di oggi (che saranno gli adulti di domani), perché poi neghiamo lo stesso trattamento alle mamme? Perchè la mamma, in quanto tale, non ha diritto a sentire e tanto meno ad esprimere tristezza, rabbia, frustrazione? Perché se lo fa viene zittita, giudicata, tacciata di essere una cattiva madre quando in realtà in quel momento è solo un essere umano in difficoltà che ha bisogno di buttare fuori per comprendere e gestire quello che sente? Perché si deve sentir dire “ma è stata una tua decisione fare dei figli, potevi non farli”?

Si dice sempre che essere genitore è il mestiere più difficile del mondo, eppure non c’è disponibilità ad accogliere, discutere, creare solidarietà nei confronti di sensazioni che qualunque genitore ha sicuramente provato a un certo punto. Voi glielo direste a uno che lavora in fabbrica, e si lamenta della stanchezza, “ma lo hai deciso tu di lavorare in fabbrica, potevi non farlo”? Potrà sembrare un parallelo esagerato eppure non lo è; semplicemente tutti noi utilizziamo due pesi e due misure per giudicare la genitorialità o qualsiasi altro contesto. Non solo, all’interno di uno dei due pesi e delle due misure vi è un’ulteriore biforcazione perché se a esternare è un papà allora non scatta lo stesso giudizio negativo di cui invece sono vittime le mamme e questo dei doppi standard nella genitorialità è sicuramente un argomento di cui vorrei discutere prossimamente.

Tornando alle emozioni e alla loro validazione, sicuramente lavorare su questo aspetto è dispendioso in termini di energie e proprie risorse emotive, a prescindere da chi sia il ricevente ultimo, un bambino o un altro genitore. Lo so (e lo so perché mi capita di farlo, nessuno è perfetto e l’importante è accorgersene e provare a migliorarsi) è più facile giocare al rilancio di chi sta messo peggio piuttosto che offrire solidarietà. È più facile fingere che tutto vada bene piuttosto che esporsi perché, dall’altra parte, è più facile giudicare o liquidare il discorso che spendere energie per offrire empatia. Eppure se tutti mettessimo giù quella maschera di finta perfezione e superiorità e legittimassimo senza timore anche le emozioni meno belle che sono, come in tutte le cose, insite nell’esperienza della genitorialità, mi sento quasi di garantirlo, vivremmo in una società più sana e staremmo tutti meglio. Soprattutto le mamme, che se lo meritano.

Sembra anche a te che ci siano delle contraddizioni nel modo in cui la società si approccia alla diade mamma-bambino?
Cosa pensi dei doppi standard che utilizziamo, quasi incosciamente, per giudicare i genitori?

Va’ dove ti porta il cuore

Il titolo del romanzo più famoso di Susanna Tamaro è ormai diventato un’espressione comune, che è entrata a far parte delle nostre vite e del nostro immaginario. Mi è capitato più volte di sentirlo dire, l’ultima di recente in risposta a una richiesta di consiglio, il che francamente sulle prime mi ha lasciato un po’ perplessa visto che, almeno per quanto mi riguarda, cuore e testa riescono a darsele di santa ragione per giorni senza che emerga un chiaro vincitore.

Stando così le cose mi è venuto spontaneo chiedermi cosa diavolo voglia dire esattamente “andare dove porta il cuore”. Mi sono rifiutata di fermarmi a una visione superficiale della questione dove seguire il cuore significa semplicemente fare quello che ci pare, come ci pare e quando ci pare, senza badare alle conseguenze e magari a discapito del prossimo. Così come rifiuto di pensare a un seguire il cuore fatto di nuvolette rosa di zucchero, unicorni e arcobaleni.

Sgombrato quindi il campo e prima di etichettare il consiglio come stupido, mi sono messa a contemplare questa esortazione che, di suo, è davvero molto affascinante. Credo sia rimasta a decantare per giorni nel background del mio cervello senza che me ne accorgessi per poi tornare alla ribalta con un’interpretazione che mi ha convinta.

Andare dove porta il cuore significa avere il coraggio di scegliere per sé stessi una vita che non nega né cela ciò che realmente siamo; vuol dire conoscersi a sufficienza da sapere quali sono le proprie ambizioni e i propri limiti, le proprie convinzioni e i propri punti deboli e prendere quindi delle decisioni coerenti con il proprio essere, che non ci stiano strette, ma che nemmeno ci pongano in una situazione estremamente frustrante. Significa vivere in modo sereno, consapevoli dei propri mezzi, senza andare alla ricerca spasmodica di qualcosa che non si è. Significa non vivere una vita fatta di calcoli e tornaconti basati sulla proiezione di una rappresentazione esteriore di sé che non corrisponde al nostro sentire interiore. Significa quindi anche rispettarsi, seguendo il proprio istinto e non modellandosi costantemente sulle aspettative altrui, oltre che non mettersi costantemente in competizione con gli altri, perché la vita non è una gara e ciascuna delle nostre esistenze non può mai veramente essere paragonata ad un’altra perché mai due vite saranno identiche; non esiste un’unità di misura che possa mettere davvero a confronto due vite e stabilire quale delle due sia migliore o di maggior successo.

Insomma, alla fine credo che questo “va’ dove porta il cuore” implichi comunque in un certo qual modo anche l’utilizzo dell’intelletto. Volente o nolente non siamo creature di puro istinto, anche se è importante accogliere la nostra parte istintuale. Dunque, seguire il proprio cuore per me vuol dire ascoltarsi, eliminare il rumore di fondo che, oggi più che mai, ci insidia costantemente dall’esterno ed avere il coraggio necessario a seguire la propria strada, anche quando essa appare molto accidentata, senza incappare nella tentazione di scegliere una scorciatoia che, per quanto ci possa far sentire più “sicuri”, non potrà mai darci la soddisfazione di sapere di aver vissuto pienamente la nostra vita.

E tu, segui il tuo cuore? Cosa significa per te “andare dove ti porta il cuore”? Dimmi tutto, sono impaziente di aggiungere altre sfaccettature alla mia interpretazione!

Through the Mirror

I libri sono specchi: riflettono ciò che abbiamo dentro.

Carlos Ruiz Zafón

Nel corso della mia vita mi è capitato di sentirmi chiedere più e più volte: “Perché leggi?”. La prima risposta che mi viene da dare è sempre: “Perché no?”, ma probabilmente non è esauriente. Allora, caro amico che mi poni questa domanda, ecco la mia risposta.

Leggo perché mi piace e mi fa stare bene.

Leggo perché, prima di dormire, non c’è niente di meglio che entrare in una dimensione fantastica per scrollarsi di dosso le tensioni delle giornate peggiori e vivere anche un’altra vita, diversa alla mia. In una parola, evasione.

plugbraininLeggo perchè ho bisogno di nutrire la mia vita interiore di nuovi spunti e mi piace pensare a tematiche che la quotidianità non mi offre, ma che non per questo sono meno importanti.

Leggo perché mi fa provare tante emozioni: felicità, tristezza, rabbia, esaltazione, dolore, caparbietà, paura, speranza. Difficilmente un libro ti lascia indifferente. Se lo fa, non è il libro che fa al caso tuo, ma anche in questo caso hai imparato qualcosa su di te.

Leggo perché mi piace allargare i miei orizzonti.

Leggo perché mi piace andare a caccia. Di cosa, te lo spiego citando Erri De Luca:

Quello che io cerco nei libri è il pezzettino che è stato scritto per me. Uno scarto, un brusco scarto di intelligenza e sensibilità che mi spiega qualcosa di me. Cosa che suppongo possedevo già sotto la pelle, ma che non sapevo dire.

E tu, che fai… leggi o non leggi?
Perché?

fightevilwithbooks