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Del perché mia figlia non è la mia (unica) prima priorità

Nel momento in cui ti nasce un figlio tutto il resto, ammettiamolo, un po’ svanisce. Il mondo che ti ha sempre circondato perde i suoi contorni, qualsiasi cosa che non sia direttamente collegata alla creatura è un po’ sfocata. Credo sia normale, d’altra parte nei primissimi mesi quella creaturina ha costante bisogno di essere curata (soprattutto se invece che, su 24 ore, dormirne 16 e starne sveglia 8 fa il contrario 😬) e siamo programmati per mettere i suoi bisogni sopra a tutto, ad andare avanti nel compito di cura anche nelle condizioni più estreme.

Dunque, è previsto dalla natura che i figli siano, in una scala di priorità, al primo posto. Li si mette lì inconsciamente ed è probabilmente questo il motivo per cui, ad esempio, l’anno scorso i regali di Natale di BabyL erano già pronti e impacchettati a novembre mentre per tutto il resto di amici e parenti ho corso come una forsennata fino all’ultimo secondo. Tuttavia, come spoilerato nel titolo, per me mia figlia non è la mia unica prima priorità. BabyL, giorno dopo giorno, se la batte (e spesso vince, ma non focalizziamoci su questo ora) con quell’entità alla quale deve la sua vita ovvero la coppia composta da me-mamma e dal suo papà. La nostra coppia esisteva prima di BabyL e se vogliamo che continui a esistere dobbiamo continuare a nutrirla e curarla, esattamente come facevamo prima di diventare genitori.

Non lo nego, a volte richiede uno sforzo enorme continuare a farlo: un po’ perché è difficile trovare il tempo da dedicarci, un po’ perché non viene più così spontaneo come prima, bisogna pensarci consciamente e sovvertire “l’ordine naturale” de “il bambino prima di tutto” e il farlo talvolta genera sensi di colpa che Freud levati! Che poi, con un bimbo piccolo per casa bisogna anche ridurre le aspettative e puntare a cose realistiche come la preparazione di un piatto speciale per cena da gustare insieme (anche se la creatura non può mangiarlo perché contiene funghi e quindi occorre fare un doppio menù) o il lasciare un bigliettino sul tavolo che l’altro troverà a colazione (da scrivere prima di andare a letto), far trovare all’altro il lavandino della cucina sgombro di piatti sporchi (lavati mentre la creatura si attacca alle gambe perché reclama tutta l’attenzione) o chiacchierare stravaccati sul divano, mano nella mano, dopo aver messo a letto la creatura (anche se vorresti solo rimbambirti davanti a una serie tv).Piccoli gesti d’amore che dicono “ti penso, ti apprezzo, ti voglio bene”. In certi momenti sembra quasi che sia più la fatica che il gusto, eppure è proprio in quei momenti che penso al lungo termine e ritrovo tutti i motivi che mi spingono a pensarla in questo modo:

  1. perchè quando BabyL sarà grande si farà la sua vita, com’è giusto che sia, e non voglio ritrovarmi fra vent’anni a chiedermi chi è lo sconosciuto con cui divido il letto;
  2. perché i figli stanno bene se i loro mamma e papà stanno bene e se la coppia ha un rapporto amorevole e sano è di grande esempio, anche per il tipo di relazione desiderabile per il futuro;
  3. perchè andare d’accordo aiuta a non perdere la bussola, a non cadere nelle recriminazioni, anche quando la situazione è tiratissima (esempio, immagina 9 mesi consecutivi di notti insonni di inaudita violenza). E l’unico modo per garantirsi almeno la possibilità di andare d’accordo è mantenere aperto un canale di comunicazione, parlare e ascoltare, confrontarsi e accogliere, a volte scendere a compromessi. E sapersi parlare vuol dire, tra le altre cose, saper elaborare delle strategie educative condivise;
  4. perché ci siamo scelti una, due, dieci, venti volte e non ho nessuna intenzione di perdere l’occasione di sceglierci tante altre volte ancora.

Sarà forse questo il motivo per cui non mi sento in colpa (una delle rare volte) se ogni tanto lasciamo BabyL con i nonni e usciamo a pranzo solo noi, dedicandoci qualche ora solo per noi, per parlare, condividere i nostri mondi interiori e ritrovarci. Perché in quel momento sto comunque facendo qualcosa che si rifletterà su mia figlia. Sto decidendo consciamente di continuare a riversare amore in quel rapporto che ha permesso di dare vita alla sua esistenza.

Con questo (e con il reel qua sotto che puoi vedere anche su il mio profilo IG) approfitto per augurare un buon San Valentino a tutte le coppie che continuano a scegliersi, a
supportarsi (e a volte anche solo sopportarsi!) e che continuano a prendere quello che la
vita dà e a trasformarlo nella loro avventura.

Non chiedermi se sono felice

In realtà una parte di quello che voglio dire lo canta Lucio Dalla in pochi poetici e memorabili versi:

Ah felicità/Su quale treno della notte viaggerai
Lo so/Che passerai
Ma come sempre in fretta/Non ti fermi mai

L’altra parte l’ha riassunta benissimo Romain Gary in un passaggio del suo meraviglioso romanzo “La vita davanti a sè“:

I ragazzi che si bucano diventano tutti abituati alla felicità e questa è una cosa che non perdona, dato che la felicità è nota per la sua scarsità […] ma io non ci tengo tanto a essere felice, preferisco ancora la vita.

Ora, non intendo misurarmi, con le mie riflessioni, con due grandi come Dalla e Gary, ma quando penso al concetto di felicità non riesco a fare a meno di richiamare alla mente queste due citazioni. Due citazioni che in realtà fungono da monito e mi aiutano a non lasciarmi andare all’autocommiserazione; devo infatti aggiungere che, di solito, penso alla felicità quando mi sento annoiata o frustrata il che al momento, con una bambina di 19 mesi che ancora ha i suoi momenti di difficoltà col sonno notturno, mi capita più spesso di quanto vorrei ammettere.

Se c’è una cosa sulla quale sono pronta a scommettere è che non sono l’unica a cadere in questo trappolone e a farmi di tanto in tanto, senza che sia successa alcuna disgrazia che giustificherebbe l’interrogativo, l’inopportuna domanda: ma perché non posso essere felice? Nei vari tentativi di trovare una risposta, nel tempo mi sono accorta che quella non è nemmeno la domanda esatta… la domanda esatta, più infida, che in realtà mi sto ponendo è: perché non posso essere sempre felice? Nel momento in cui me lo chiedo sono serissima, come se fosse possibile sia trovare una risposta sia soddisfare la richiesta, ovvero essere sempre felici. Come se fosse, tra l’altro, questione di performance. Ogni volta ci impiego qualche secondo di troppo a ricordarmi che questa aspirazione è pura utopia e che, in quanto tale, non potrà mai essere raggiunta. E meno male, aggiungo. Ma perché allora, periodicamente, questo interrogativo torna ad assillarmi e sempre con la stessa forza?

Sono convinta che molto di ciò che succede nel nostro cervello, in modo automatico, quando ci accostiamo al concetto di felicità sia fortemente influenzato dalla cultura del capitalismo e dell’apparenza che domina il nostro quotidiano; per essere sempre felici dovremmo avere più soldi, più successo, più riconoscimenti, più di tutto e non solo, dovremmo avere poi sempre più di tutto perché, a quel punto, niente basta mai. D’altra parte non è un caso che la stragrande maggioranza delle pubblicità siano “aspirazionali” ovvero che, insieme al prodotto, mirino a venderti la sensazione, ovviamente positiva, di come potresti sentirti se solo possedessi quel prodotto. Inoltre, e non è secondario, per un altro vizio di cultura in Occidente siamo portati a considerare le cose positive molto più di quelle negative, dimenticandoci che:

  1. le cose negative sono tanto necessarie quanto quelle positive per la nostra evoluzione personale;
  2. spesso le cose belle, quelle belle davvero, vengono fuori da cose meno belle come, ad esempio la fatica e il sacrificio;
  3. senza il negativo, come faremmo mai a sapere cos’è il positivo (Eraclito, mi senti)?

Già solo tenere a mente queste cose mi aiuta a ridimensionare all’istante il fastidio che provo quando mi accorgo che, di nuovo, mi sto arrovellando sul nulla. Quello che spero di riuscire a fare un giorno è smettere del tutto di chiedermi se sono felice (e cercare di misurarne il “quanto”), di pianificare e agire dando la caccia a una cosa fugace, contingente (quello che mi fa felice oggi, magari non mi fa felice domani) e mutevole come la felicità.
Vorrei smettere di dirmi che se solo avessi/potessi fare una determinata cosa o se solo qualcosa fosse diverso sarei più felice (salvo che poi, anche quando la condizione si realizza, capita di sentirsi felici per circa tre secondi prima di cominciare a inseguire qualche altra chimera) e, semplicemente, vivere tutto l’enorme casino che è questa vita. Anche perché ho come idea che la ricerca spasmodica della felicità sia in realtà la più grande antagonista alla sua realizzazione e possa rendere più difficile riuscire ad assaporare con spontaneità e fino in fondo tutti i piccoli assaggi di felicità che ci vengono dispensati dal caso.

Hai mai pensato a quanto la nostra cultura abbia idealizzato il concetto di felicità?
Ti va di raccontarmi di quella volta che credevi che la realizzazione di un obiettivo ti avrebbe fatto toccare il cielo con un dito, ma poi non è stato così?

Felicità Interna Lorda: il benessere non è solo una cosa materiale

È una frase fatta, tra quelle che probabilmente sentiamo dire più spesso: “I soldi non fanno la felicità“.
E benché si possa certo ammettere che sia sicuramente preferibile non essere poveri in canna, quella frase fatta è alla base di un concetto che ho scoperto di recente e che auspico diventi parte delle nostre vite al più presto: sto parlando del concetto di Felicità Interna Lorda.

Coniata negli anni ’70 dall’allora Re del Bhutan, un Paese che a guardalo dal punto di vista occidentale è un paese poverissimo, la FIL (e qui si rende evidente l’ammiccamento al solo metodo che in Occidente utilizziamo per misurare la ricchezza, ossia il PIL – Prodotto Interno Lordo) è un approccio di sviluppo che mira ad accrescere la felicità delle persone, piuttosto che soltanto la loro tangibile ricchezza, tenendo dunque conto del fatto che il singolo individuo ha sì bisogni di natura materiale, ma anche di natura fisica (l’ambiente), culturale e spirituale. Un approccio che il Bhutan segue dal 1972 e che lo rende il “Paese più felice del mondo“, mentre da noi la Treccani ha introdotto questa nozione nel suo dizionario di Economia e Finanza soltanto nel 2012. Per non parlare del fatto che, in Italia, siamo lontanissimi dal tenere in considerazione la Felicità Interna Lorda come una linea guida per lo sviluppo del nostro Paese. Non a caso, infatti, siamo ancora fuori dalla TOP 30 del World Happiness Report, dietro a paesi come Israele, Guatemala e Taiwan.

Ovviamente non è che esista una formula infallibile per distribuire equamente felicità e benessere, ma sarebbe bello se, nel pensare i prossimi decenni, noi tutti (e soprattutto chi ci governa) interiorizzassimo questo concetto, abbandonando sempre di più la via del consumismo e valorizzando maggiormente la difesa dell’ambiente in cui viviamo, lo splendido patrimonio artistico e culturale che solo in Italia abbiamo, la tutela della salute, la qualità delle nostre relazioni sociali, l’intero sistema educativo e del mondo del lavoro, dove a contare dovrebbe finalmente essere la qualità del lavoro piuttosto che il numero delle eterne e stressanti ore passate in ufficio o in fabbrica, riducendo infine la benedetta forbice reddituale che colloca l’Italia all’ultimo posto della classifica degli Stati europei più popolosi per differenza di reddito tra i ricchi e i poveri (l’Oxfam ha stimato che nel Belpaese il 5% più ricco degli italiani possiede da solo della stessa quota di patrimonio posseduta dal 90% più povero. Già solo a leggere questo non è che uno si senta felice subito, a meno che non faccia parte di quel 5%).

In un mondo dove Oriente e Occidente non sono mai stati così vicini (nel bene e nel male, vedi la pandemia in corso) è ora di smettere di pensare che tutto il pianeta debba adeguarsi allo standard occidentale. Apriamoci alla multiculturalità e prendiamo il buono che possiamo trovare in ogni Paese del mondo, fosse anche il Bhutan. Come ha detto il Dalai Lama, “il fine dello sviluppo economico dovrebbe essere quello di facilitare e non di ostacolare il raggiungimento della felicità” e, a pensarci bene, la cosa di per sé è più che logica; d’altra parte se pensi alla parola “sviluppo” scommetto che ti viene in mente qualcosa che ha dei risvolti positivi, che porta miglioramenti.

Io ci voglio credere, voglio credere che pian piano lo standard occidentale terrà sempre meno conto degli indici consumistici e sempre più conto del benessere generale delle persone. Voglio credere che l’idea di Felicità Interna Lorda possa entrare prepotentemente nelle nostre vite, diventare l’insieme universo che ricomprende il sottoinsieme del Prodotto Interno Lordo e che, equilibrando i vari elementi, si arrivi a una ridefinizione delle priorità della nostra società.

Avevi già sentito parlare di Felicità Interna Lorda?
Cosa pensi di questa nozione? Colpisce anche il tuo immaginario?