Se scrivessi solo “capolavoro” ti farei capire subito cosa penso e, in effetti, secondo me non c’è parola migliore di questa per descrivere la Trilogia della città di K. di Agota Kristof. Tuttavia, se scrivessi solo “capolavoro”, non sarei esauriente. Questi tre romanzi, infatti, dicono tanto; anzi, dicono tutto e il contrario di tutto, avvolgendo il lettore in una spirale di ipotesi e contro-ipotesi fino a che il miscuglio di realtà e finzione è così denso e impastato che l’una è indistinguibile dall’altra.
Il primo dei tre romanzi, “Il grande quaderno”, scritto nel 1986, è quello che ho preferito. Scritto con uno stile unico, che mai avevo trovato neanche vagamente fra i tanti libri che ho già letto. Freddo, violento, crudo, disincantato, alienante. Magnifico.
Il secondo, “La prova” è uscito a due anni di distanza dal primo. Lo stile cambia, la musica no. Pagina dopo pagina, c’è sempre la sensazione che qualcuno ti stia stritolando lo stomaco, eppure il racconto è così bello da non potersene allontanare. Agota Kristof riesce ad ammaliare, ad attirare a sé il lettore per poi respingerlo indietro al punto di partenza con colpi di scena a tinte forti, dove la solitudine e l’isolamento finiscono per ingoiare qualsiasi spiraglio di luce aperto in precedenza.
Infine, “La terza menzogna” conclude la trilogia nel 1991. Ancora una volta, tutto ciò che fino a quel momento hai creduto essere vero non lo è più. C’è ancora un’altra realtà da scoprire, ma questa realtà è di nuovo una menzogna o è la verità? Ciascuno è libero di elaborare le proprie teorie, smontarle e rimontarle infinite volte, trovare la propria quadra, consapevole del fatto che la quadra di un altro lettore potrebbe essere completamente diversa.
La Trilogia della città di K. è un libro intenso e, credo, indimenticabile. Non mi stupisce che ci siano lettori che non l’hanno terminato o a cui non è piaciuto; è un libro talmente particolare che trovo normale sia così. Io l’ho divorato, leggendolo anche in bus e ogni qualvolta avevo cinque minuti liberi. Oltre a quanto già detto, mi sono piaciute tantissimo tre cose:
- i nomi dei due gemelli protagonisti, Claus e Lucas, sono l’uno l’anagramma dell’altro. Lo trovo molto significativo;
- ogni descrizione della natura è focalizzata sul cielo, un cielo così azzurro che non si trova da nessun’altra parte al mondo. Viene da pensare che sia il cielo che la scrittrice vedeva in Ungheria e che in Svizzera, la sua patria adottiva, un cielo così azzurro non c’è;
- è ovviamente un libro che invita a pensare, a cercare di dare un senso a quanto si legge, che poi finisce immancabilmente per essere stravolto. E, lo sai, a me questa cosa piace da matti. E siccome la mia testa è tutta un continuo ribollire di idee, mi sono lanciata nell’elaborazione di una teoria, astrusa se vogliamo, che voglio condividere con te per vedere se ci può stare. Dunque, la città di K. non esiste; verosimilmente le vicende si svolgono in Ungheria, in una città di confine, ma K. è fittizia.
Ora, il cognome della scrittrice è Kristof, abbreviato K.
Così, naturale come l’acqua, a me è venuto da pensare che la città di K. altro non è che la mente della scrittrice, dove personaggi, luoghi, avvenimenti hanno preso forma, per anni, fino a diventare tanti personaggi, tanti luoghi, tanti avvenimenti.
Ecco, l’ho sparata. Ora, se hai già letto il libro, sta a te sparare la tua idea nei commenti. Se non lo hai letto, è ora di fare un salto in libreria 😉