Tag: lavoro a distanza

Cronache da una zona rossa

<che poi, diciamocelo, chi prima e chi dopo, chi più e chi meno, praticamente chiunque su suolo italiano è stato in zona rossa questi mesi>

Lo premetto immediatamente: questo è un post che non ha capo né coda, né uno scopo, ma è frutto della stanchezza accumulata in questi lunghissssssimi mesi di clausura forzata. In pratica, un lamento neanche tanto convinto sulla situazione Covid che ormai si trascina da quelli che a me sembrano secoli.

È innegabile che molti di noi se ne siano altamente sbattuti e si vede dai dati dei contagi che comunque non accennano a calare: tanto per restare nel mio territorio, la città metropolitana di Bologna è zona rossa da quasi 40 giorni, ma nonostante questo i reparti covid negli ospedali sono ancora murati di pazienti e non passa giorno che sui quotidiani locali non ci siano articoli su gente multata per assembramenti/grigliate/feste/tornei sportivi improvvisati e così via. La data di uscita dalla zona rossa è dunque già stata rimandata più e più volte e per ora altre 2 settimane ci toccano di sicuro.

Personalmente, io e il mio compagno siamo stati più che ligi: vacanze di Natale e Pasqua stile cella di isolamento ad Alcatraz, amici visti 3 volte in tutto da ottobre ad oggi, sempre e solo quando eravamo in zona gialla e rigorosamente per un’oretta al parco, sfidando il freddo invernale pur di ritrovarsi faccia a faccia (o meglio, mascherina a mascherina) per qualche momento, niente pranzi domenicali con genitori e nonni, niente cene al ristorante né passeggiate nelle vie dello shopping e così via. Ed è qui che mi subentra una sensazione di frustrazione e rabbia che ogni tanto esplode in attacchi di turpiloquio fine a sé stesso e che, poveretto, solo il mio compagno si becca. Ci sono giorni che fischio come una pentola a pressione a vedere le bellissime foto di gente che invece si ritrova allegramente con orde di parenti e gruppi di amici, che approfitta di un lieve calo delle restrizioni per stiparsi a fare aperitivo, cosa che magari prima neanche faceva, ma dai, adesso andare a fare ape sfidando il Covid fa trendy. Le stesse persone che poi comunque si lamentano che non si esce più da una situazione che loro stessi contribuiscono a creare. Ho perso il conto dei “blocca” che ho cliccato pur di non vedere/sentire/leggere più certe cose e stare serena.

L’anno scorso ero decisamente più ottimista. Non che adesso non creda che prima o poi finirà, ma mi sento meno energica nel combattere la noia e la frustrazione, più scoraggiata ogni volta che mi capitano sotto gli occhi articoli su gente multata per feste private. Sono decisamente poco, se non per nulla, incline a capire le motivazioni di queste persone e più incline, se solo si potesse, a prenderle a randellate. Così come, a dirla brutalmente, spaccherei la testa a qualunque novax, sanitario o meno, che mi capita di incrociare. La mia voglia di capire, venire incontro nonché la moderazione è bell’e volata fuori dalla finestra.

masked-and-hopefulIl perché è semplice. Perché si continua a fare una vita a metà. Si continua a lavorare da casa, a ritmi talvolta folli, a uscire solo per fare la spesa e un po’ di sport all’aperto, giusto per non ritrovarsi coi muscoli completamente atrofizzati, a consolarsi con pizza e popcorn per l’ennesimo sabato sera passato in casa.
E poi si spera. Si spera che la campagna vaccinale prenda ritmo e velocità e dia presto i suoi frutti. Si spera che anche i negozi non “essenziali” riaprano e che si possa tornare a godersi una bella cenetta fuori dalle mura domestiche. Si spera che, nuovamente, con l’arrivo dell’estate la situazione migliori e ci permetta di vivere una vita più “normale” e soprattutto, si spera di non ricascare nella stessa spirale a ottobre prossimo. Perché davvero non so quanti di noi potrebbero sopportare un altro periodo di restrizioni che copra un altro autunno, inverno e primavera; non si può vivere solo per tre mesi all’anno. Inizio a nutrire il dubbio che io stessa finirei per non rispettare così diligentemente le regole, salvo poi sentirmi in colpa per i prossimi lustri a venire.

Dal momento che ho cominciato io, signore e signori, i commenti sono aperti ai vostri lamenti.
Sfoghiamoci insieme oggi per non arrabbiarci di nuovo domani 😆

Smart working = happy working?

Sono passati tre mesi da quando lo scoppiare della pandemia da Covid-19 ha obbligato molti di noi a sperimentare una modalità di lavoro di cui tanto si era sentito parlare, ma che soltanto pochi avevano potuto già provare concretamente: sto parlando dello smart working (o, all’italiana, lavoro agile). Con il passare del tempo un po’ tutti ci siamo fatti un’idea precisa circa il cosa comporta questo modo alternativo di lavorare e, mentre alcuni non si sono trovati affatto bene, la maggioranza delle persone ha trovato soprattutto pregi nel lavorare a distanza. Sono contenta di dire che, una volta tanto, mi ritrovo assolutamente in questa maggioranza: anzi, personalmente mi trovo così bene che mi piacerebbe poter continuare ad alternare smart working a lavoro classico in ufficio per il resto della mia carriera.
Certo, l’accezione vera dello smart working non è quella che ho potuto provare finora: teoricamente la valutazione della performance lavorativa non avviene sulla base del numero di ore di servizio prestate, ma per obiettivi (e magari, sarebbe ora di rendere questa modalità la modalità standard anche per il lavoro in ufficio) e si può lavorare da dove si vuole, che sia da casa propria, dal bar della spiaggia o da qualsiasi luogo dove si è raggiunti da una connessione a Internet. Ovviamente, essendo in lockdown prima e mancando ancora adesso una codifica di obiettivi per la valutazione del lavoro, questi due aspetti fondamentali sono ciò che ancora manca alla mia esperienza con il lavoro agile, ma lungi da me mettermi a fare un trattato onnicomprensivo sullo smart working! Quello che voglio fare è semplicemente condividere con te cosa ho capito negli ultimi tre mesi dalla mia personale esperienza con il lavoro a distanza.

Tra i vantaggi dello smart working, l’aspetto che per me è una vera e propria benedizione è il risparmio di tempo. Niente corse per non perdere le coincidenze tra una corriera e l’altra, niente malumori di primo mattino perché i mezzi sono sempre pieni murati, niente imprecazioni perché il traffico ti fa arrivare ancora una volta in ritardo, niente sospiri di rassegnazione perché a fine giornata ti ritrovi a correre di nuovo per fare il viaggio di ritorno in senso contrario. Tutto ciò per me si tramuta in molto meno stress e, soprattutto, in quasi due ore di tempo utile riguadagnato ogni giorno, permettendomi la mattina di dormire quasi un’ora in più (e per la prima volta da anni non ho sempre sonno… se non fosse una cosa così piacevole sarei quasi preoccupata di aver perso uno dei tratti della mia personalità).
Inoltre, lavorare da casa permette di concentrarsi davvero su quello che si sta facendo (o almeno, non avendo bambini per casa, per me è così), senza essere continuamente interrotti da telefoni che squillano, fax che arrivano, colleghi che chiedono cose che non c’entrano con quello che si sta facendo (apparentemente, prima di fare una telefonata le persone ci pensano due volte…) e di organizzare come si vuole la propria giornata e il proprio carico di lavoro. Un aspetto, questo dell’organizzazione, che implica anche una buona dose di responsabilità da parte di ciascun lavoratore, cosa che a me piace particolarmente.

Tra gli svantaggi, invece, annovero l‘assenza di scambio umano. Soprattutto nelle fasi iniziali di un nuovo progetto, quando si lavora in squadra, c’è bisogno di confrontarsi molto e farlo attraverso videoconferenze non è la stessa cosa che condividere uno stesso spazio. In qualche modo, per quanto alla fine assolutamente efficaci, telefonate e videocall finiscono per allungare un pochino i tempi di lavoro quando ci sono più persone che lavorano agli ingranaggi di una stessa macchina e, diciamolo, nelle giornate più difficili poter fare una pausa caffè con i propri colleghi o buttare lì una battuta quando il livello di stress sale è quello che ci salva. Ritrovarsi soli con il proprio monitor certi giorni finisce per essere un po’ pesante e anche se si può smorzare l’atmosfera facendo una telefonata, come tutti abbiamo avuto modo di provare nei mesi scorsi, stare insieme virtualmente non è la stessa cosa che vedersi in faccia e stare insieme per davvero.

Per tutte queste ragioni, come accennato in apertura di post, credo che un’alternanza tra le due modalità di lavoro potrebbe essere la chiave definitiva per permetterci di lavorare in modo più sereno, più sano e, forse, anche un po’ più felice. Andando in ufficio quando a essere più necessario è l’aspetto di condivisione e restando a casa quando invece c’è da mettersi a testa bassa e portare a termine i propri compiti si potrebbero raggiungere nuovi equilibri in modo più efficiente rispetto al passato, sia all’interno della sfera lavorativa che nel bilanciamento tra il tempo che ciascuno di noi deve dedicare al lavoro e quello che invece viene dedicato a tutti gli altri aspetti della vita.

Hai provato anche tu lo smart working in questi mesi?
Promuovi o bocci questa modalità di lavoro?