Sin da bambina una delle cose che mi piace fare ogni tanto (ok, più spesso di ogni tanto!) è guardare le foto dei miei genitori quando erano giovani. I loro volti sorridenti impressi sulla cellulosa che sta ormai ingiallendo, i vestiti e i tagli di capelli che portavano, i loro amici, che pure conosco, come io non li ho mai conosciuti. Ammetto anche che adoro guardare le foto che mi ritraggono con loro nei miei primissimi anni di vita; ovviamente non ho ricordi miei di quegli anni, ma attraverso racconti e fotografie riesco a ricostruire la mia vita sin dai primi momenti. Una cosa assolutamente impagabile!
Del resto la tecnologia di allora ti obbligava a seguire determinari passaggi: scattavi le foto, solo quelle che veramente importavano perché il rullino costava, le portavi a sviluppare, attendevi almeno una settimana e che gioia! quando finalmente aprivi la busta contenente le stampe (e i negativi!!) nella speranza che la foto di gruppo scattata durante quella bellissima gita in montagna fosse uscita bene. Per queste cose, lo giuro, sono estremamente grata di aver vissuto gli anni Novanta. Sì, perché poi l’avvento delle macchine digitali prima e l’implementazione di fotocamere di una certa qualità sui nostri smartphone dopo hanno cambiato le carte in tavola, modificando le nostre abitudini e riducendo drasticamente il numero di fotografie stampate a fronte di un incremento allucinante del numero di scatti effettuati.
Se finché c’erano i rullini posso sfogliare album fotografici e ricordare esattamente dove ero, come ero vestita e con chi ero un certo giorno di un certo anno, non posso fare la stessa cosa per la mia adolescenza e i miei primi viaggi. Quelle foto non sono mai state stampate e sono andate perdute qualche hard disk fa. Non volendo rischiare mai più di perdere una cosa tanto preziosa quanto i ricordi e non volendo lasciarmi dietro un deserto digitale da ormai cinque anni ho ripreso l’abitudine di stampare le fotografie.
Intendiamoci, non che io ogni tanto non mi faccia prendere dallo scatto compulsivo, soprattutto quando viaggio, ma poi, una volta tornata a casa, mi siedo e, con il mio compagno, scelgo le foto più rappresentative (non solo le più belle) del viaggio, le faccio stampare e infine, armata di matite, pennarelli metallizzati, biadesivo e altre amenità da cancelleria varie, le organizzo e incollo, trasformando un semplice album in un foto diario, che raccoglie anche i biglietti dei musei che abbiamo visitato, dei ristoranti in cui abbiamo mangiato e così via.
È un’attività che mi aiuta a fissare i ricordi, a gustare nuovamente l’atmosfera che c’era nel momento in cui una certa fotografia è stata scattata.
La cosa più bella è che è diventata un’attività di coppia: “fare l’album” è una cosa che facciamo insieme, tendenzialmente quando il maltempo ci impedisce le attività all’aperto. A volte, finiamo per passare le domeniche pomeriggio a rievocare le (dis)avventure e le gag più divertenti dei nostri ultimi viaggi, per poi metterle nero su bianco (cioè, nel nostro caso, bianco su nero). In questo modo, anche fra vent’anni, avremo una traccia viva delle esperienze che abbiamo fatto insieme. Conoscendomi, so già che sfoglierò questi album tantissime volte perché, alla fine, sono i dettagli a raccontare grandi storie e so che se non li documento in qualche modo, finiranno per essere dimenticati.
È per questo che, in mezzo al marasma generale che è una normale vita nel ventunesimo secolo, mi ritaglio comunque un po’ di tempo per registrare tutte quelle piccole cose che sul momento mi sembrano importanti.