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Carne e sangue, ovvero #ildisagio

Ci sono libri “scomodi”, capaci di metterti addosso un malessere di fondo che, se sei fortunato, termina a fine lettura, quando con sollievo richiudi il volume per l’ultima volta.
È il caso di “Carne e sangue” di Michael Cunningham, il cui stile narrativo mette a nudo con spietata crudezza un disagio molto attuale (oggi forse più di quando il libro è uscito, nel 1995, a causa dello storytelling dell’Amministrazione Trump).

“Carne e sangue” racconta le vicende di tre generazioni della famiglia Stassos, i cui capostipiti, Mary e Constantine, sono immigrati su suolo americano (lui dalla Grecia, lei dall’Italia) ed entrambi ben decisi a diventare qualcuno in nome di quel Sogno Americano che ancora oggi plasma l’immaginario di molti. Soprattutto Mary dà voce a questa aspirazione ripetendo più volte che loro sono A-me-ri-ca-ni, mentre Constantine nutre questo desiderio in modo più interiore, ma non per questo con minor disperazione. In nome dell’illusorio Sogno Americano, Constantine diventa un costruttore rabbioso e cinico che fabbrica case dai dettagli signorili con materiali di infima qualità (per poi aggirarsi di notte nei quartieri che ha contribuito a edificare spiando coloro che sono andati ad abitarvi) e Mary spende più soldi di quanti la famiglia possa permettersi (nel tentativo di apparire una vera signora), accumulando cianfrusaglie e comprando ai figli oggetti di cui i figli stessi non hanno alcun desiderio. La fiamma del consumismo e il bisogno malsano di avere successo li divora lasciando però un vuoto, una eterna sensazione di insoddisfazione, che ricadrà fatalmente anche sulle generazioni future e che nessun membro della famiglia Stassos sarà veramente in grado di colmare.

Tensione, rancore e disperazione sono gli ingredienti alla base della vita quotidiana della famiglia Stassos da cui i tre figli, in modi molto diversi fra loro, cercano di fuggire pur rimanendo sventuratamente avviluppati nell’atmosfera cupa e rarefatta che ha caratterizzato la loro infanzia e adolescenza. A niente varranno i tentativi di raggiungere un equilibrio stabile, quella felicità durevole e dorata che è la promessa ultima del Sogno Americano. Perché la vita, si sa, distribuisce per tutti sorrisi e lacrime, colpi di fortuna e dolori indicibili e qualsiasi illusione che porti a credere diversamente è destinata a scoppiare come una bolla di sapone.

Per mezzo della famiglia Stassos, Micheal Cunningham ci ha regalato un ritratto brutale (e personalmente credo pessimistico) dell’umanità, un groviglio di carne dolente e sangue amaro, una sedia davvero scomoda su cui, se deciderai di sederti, passerai alcune ore di vero discomfort.
Insomma, una lettura non facile, ma non per questo meno degna di essere affrontata.

Il dolore perfetto

Se ne rimase immobile con questi desideri, e con il sentimento che la vita sia un insieme di attimi che mai una sola volta, neanche una sola volta riusciamo a controllare, che sfuggono, anticipano o ritardano senza preavviso e si prendono gioco di chi tenta di ingannare il dolore riempiendo il cuore di nuvole e cielo.

Nel chiudere questo libro, dopo averlo finito, credo non si possa fare a meno di pensare che ogni dolore che si compie è un dolore perfetto. Infatti, in questo romanzo, Ugo Riccarelli evidenzia la funzione evolutiva del dolore che per quanto sgradevole non è mai del tutto negativo e, anzi, consente di conoscere e conoscersi, di ripensare alla propria vita con occhi diversi e cambiare per migliorare. Il dolore come evento che mina le nostre vite, ma che contemporaneamente è spinta propulsiva per andare avanti.

“Il dolore perfetto” è una saga familiare, che si svolge in Toscana a partire dalla fine dell’Ottocento, e della saga familiare riporta molti elementi tipici: la moltitudine di personaggi, le cui storie di intrecciano e avvitano con un continuo ritornare di nomi nel susseguirsi delle varie generazioni. Mondi interiori, sentimenti e sensazioni, che interpretano il contesto circostante. Il piccolo paese in cui si svolgono le vicende che diventa finestra sul mondo per dare spazio agli eventi che hanno fatto la storia, in questo caso dall’avvento del treno ai moti anarchici di fine Ottocento, dalla prima guerra mondiale fino al boom economico del secondo dopoguerra.

Cambiano le stagioni e tutto torna e forse pensare di sfuggire a questo rotolare è cosa ingenua, debole luce che contro il tempo non vale.

Non solo! Riccarelli si accosta qui a Marquez, spolverando con un po’ di magia il concatenarsi degli eventi, le circostanze e i personaggi che le popolano, anche se non si può esattamente parlare di realismo magico (il che, almeno per me, non è un punto a suo sfavore).

Pur con uno stile a tratti troppo ricercato, fino a diventare smaccatamente artificioso, Riccarelli riesce a coinvolgere il lettore, a trasportarlo a Colle, a fargli respirare l’aria paludosa del Padule, a fargli sentire lo sferragliare dei primi treni e il rombare dei primi motori a scoppio. Più di ogni altra cosa riesce a sospendere il tempo frenetico in cui viviamo per reinstaurare un lento ritmo antico. Quest’ultimo aspetto è quello che mi ha fatto davvero apprezzare questa lettura; lentezza come grande pregio, come un ritorno a quelle radici che non abbiamo quasi più tempo di rispolverare.

Quando Teresa si arrabbiò con Dio

La libertà non è la ribellione, ma piuttosto la pratica di una fantasia senza limiti all’interno delle restrizioni imposte dal potere.

coper_dondemejorSe ti capita tra le mani “Quando Teresa si arrabbiò con Dio” di Alejandro Jodorowsky, ricorda che il titolo italiano ha ben poco a che fare con il contenuto del libro, il cui titolo originale è “Donde mejor canta un pájaro” (letteralmente, Dove un uccello canta al meglio).

La rabbia di Teresa contro Dio è soltanto il punto di partenza della narrazione che l’autore imbastisce per trasferire al lettore le vicende che portano la famiglia Jodorowsky, di origine ebrea, a intraprendere un viaggio che dalla Russia la condurrà fino al Cile. Il cognome non è un caso; l’autore si è ispirato alle vicende della propria famiglia, ma credimi, il libro non è certo una biografia.

Infatti, ogni vicessitudine prende spunto dalla realtà, ma i fatti vengono immediatamente trasfigurati da una fantasia dilagante e surreale, tipica dei nostri sogni più assurdi, dove tutto è accettabile e niente viene catalogato come impossibile. In questo, lo stile di Jodorowsky ricorda da vicino quello di altri autori sudamericani come la Allende, Amado e García Márquez, quest’ultimo maestro assoluto del mito e del realismo magico.

Ne risulta che, di fatto, la trama del libro non è poi così importante; ciò che conta è lasciarsi trasportare da una immagine onirica alla successiva senza opporre resistenza e godersi gli sprazzi di follia che Jodorowsky offre al lettore nel raccontare la sua epica, gloriosa e al tempo stesso miserabile, saga familiare. Parola di Jodorowsky stesso:

Comunque la realtà è la trasfigurazione progressiva dei sogni, non c’è altro mondo se non quello onirico.