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Ode alla varia umanità

Non so se ti capita mai.
A volte, senza alcun motivo specifico, sento delle ondate di affetto, anzi, amore per la vita e per il genere umano che mi travolgono; mi sento leggera, mi viene da sorridere e per un po’ provo un senso di pace. Non succede spesso, ma quando capita è bellissimo.

L’ultima volta che ho provato questa sensazione, così impalpabile che non ho davvero parole per spiegare, è stato appena qualche settimana fa. Te la voglio raccontare, tanto per farti capire che sono le piccole cose più disparate a scatenare questo tsunami emozionale.
Stavo facendo la spesa al supermercato, tra cassette di verdura già un po’ troppo “stagionata”, a caccia di zucchine e melanzane ancora sode, quando la filodiffusione inizia a trasmettere “Billie Jean” di Michael Jackson. Mentre sto pesando i miei ortaggi mi viene spontaneo tenere il ritmo con la testa e con il piede; assolutamente impossibile rimanere ferma. Attacco l’etichetta con peso e prezzo ai sacchetti, ci faccio un nodo e mi giro per metterli nel carrello quando il mio sguardo incrocia quello di una signora fra i 60 e i 70 anni che, evidentemente, avendo visto che mi stavo godendo la canzone, ha deciso di farmi sapere che anche lei apprezzava e passandomi accanto mi ha fatto l’occhiolino iniziando a canticchiare il ritornello.

Saranno stati in tutto quanto, 30 secondi? E cosa è successo di così speciale? Assolutamente nulla. Eppure ripensare a questo piccolo incontro casuale mi ha messo di buonumore per giorni interi, l’ho trovato così speciale da raccontarlo a chiunque e persino da scriverlo qui. Razionalmente, lo capisco, non è niente, ma nel mio mondo interiore quel cenno di comunione con una completa sconosciuta deve aver toccato qualcosa. Sarà per questo che uno dei miei passaggi preferiti tra tutti i libri che ho mai letto si trova in “City” di Alessandro Baricco (che, se mi segui da un po’, sai anche che non è che io e Baricco andiamo poi così d’accordo).

Non so cosa sia, ma è stupore e meraviglia ogni volta. E credo sia anche il motivo per il quale non mi trovo mai d’accordo con chi dice “odio tutti” oppure “dobbiamo estinguerci”. No, forse dobbiamo solo restare un po’ più aperti al casuale, lasciarci prendere e sballottare dalla vita mentre accade senza avere sempre un obiettivo stringente. O forse sono solo io una scema, ma mi piace essere scema così.

Lo so, non è che sia riuscita a spiegarmi granché, ma forse hai afferrato il sentimento di cui ho parlato. Ti è mai capitato di provare qualcosa di simile?

Carne e sangue, ovvero #ildisagio

Ci sono libri “scomodi”, capaci di metterti addosso un malessere di fondo che, se sei fortunato, termina a fine lettura, quando con sollievo richiudi il volume per l’ultima volta.
È il caso di “Carne e sangue” di Michael Cunningham, il cui stile narrativo mette a nudo con spietata crudezza un disagio molto attuale (oggi forse più di quando il libro è uscito, nel 1995, a causa dello storytelling dell’Amministrazione Trump).

“Carne e sangue” racconta le vicende di tre generazioni della famiglia Stassos, i cui capostipiti, Mary e Constantine, sono immigrati su suolo americano (lui dalla Grecia, lei dall’Italia) ed entrambi ben decisi a diventare qualcuno in nome di quel Sogno Americano che ancora oggi plasma l’immaginario di molti. Soprattutto Mary dà voce a questa aspirazione ripetendo più volte che loro sono A-me-ri-ca-ni, mentre Constantine nutre questo desiderio in modo più interiore, ma non per questo con minor disperazione. In nome dell’illusorio Sogno Americano, Constantine diventa un costruttore rabbioso e cinico che fabbrica case dai dettagli signorili con materiali di infima qualità (per poi aggirarsi di notte nei quartieri che ha contribuito a edificare spiando coloro che sono andati ad abitarvi) e Mary spende più soldi di quanti la famiglia possa permettersi (nel tentativo di apparire una vera signora), accumulando cianfrusaglie e comprando ai figli oggetti di cui i figli stessi non hanno alcun desiderio. La fiamma del consumismo e il bisogno malsano di avere successo li divora lasciando però un vuoto, una eterna sensazione di insoddisfazione, che ricadrà fatalmente anche sulle generazioni future e che nessun membro della famiglia Stassos sarà veramente in grado di colmare.

Tensione, rancore e disperazione sono gli ingredienti alla base della vita quotidiana della famiglia Stassos da cui i tre figli, in modi molto diversi fra loro, cercano di fuggire pur rimanendo sventuratamente avviluppati nell’atmosfera cupa e rarefatta che ha caratterizzato la loro infanzia e adolescenza. A niente varranno i tentativi di raggiungere un equilibrio stabile, quella felicità durevole e dorata che è la promessa ultima del Sogno Americano. Perché la vita, si sa, distribuisce per tutti sorrisi e lacrime, colpi di fortuna e dolori indicibili e qualsiasi illusione che porti a credere diversamente è destinata a scoppiare come una bolla di sapone.

Per mezzo della famiglia Stassos, Micheal Cunningham ci ha regalato un ritratto brutale (e personalmente credo pessimistico) dell’umanità, un groviglio di carne dolente e sangue amaro, una sedia davvero scomoda su cui, se deciderai di sederti, passerai alcune ore di vero discomfort.
Insomma, una lettura non facile, ma non per questo meno degna di essere affrontata.

Joker – Put on a happy face

Questa non è una recensione, non credo di avere gli strumenti per poterne fare una. Ma di questo film ti voglio assolutamente parlare per due ottimi motivi:
1) Joker è da sempre uno dei miei personaggi di fantasia preferiti;
2) Era da tempo che un film non mi faceva riflettere tanto quanto mi sta facendo riflettere questa pellicola.
Ed ecco perché stai leggendo queste righe. Prima di andare oltre, però, ti avverto: se non hai ancora visto il film e intendi farlo, non leggere questo post perché

Ciò detto, ecco la mia prima considerazione: se uno dovesse andare al cinema con l’idea di vedere un film sul Joker mastermind che tutti conosciamo rimarrebbe molto deluso. La storia che il regista Todd Phillips ci racconta non è tanto su Joker, ma su come Arthur Fleck finisce per diventare Joker. È un bellissimo studio sul personaggio. Dimentica tutti gli attributi che puoi associargli: folle, criminale, antagonista, nemesi, genio del male. Niente di tutto questo. Il Joker di Joaquin Phoenix (date un Oscar a questo uomo, subito!) è soprattutto umano. Niente stereotipi, questo Joker esprime uno spettro di emozioni molto stratificato, e durante la visione del film lo spettatore si ritrova a compatirlo, a fare il tifo per lui, a prenderne le distanze e a sentirsi disgustato dal personaggio.

Ma chi è Arthur  Fleck?
Arthur Fleck è un uomo mentalmente instabile, assurdamente magro e che vive con la madre, con la quale ha un rapporto difficile da definire. Crede davvero che il suo scopo sia quello di donare gioia e felicità agli altri (come la madre da sempre gli racconta), per questo lavora come clown e per questo cerca sempre di aprirsi, di avvicinarsi agli altri. Ma oltre a non avere un aspetto rassicurante ha un disturbo neurologico che lo fa scoppiare in eccessi di risate da brividi nei momenti meno opportuni. Phoenix è fantastico: riesce a ridere con la metà inferiore del viso, mentre dal naso in su il suo volto è espressione di massima sofferenza.
Consiglio: non riprodurre la risata di Joker al buio se non volete che il vostro partner vi cecchini con la ciabatta.

Ora, prendi questo personaggio e inseriscilo nel contesto di Gotham City; una metropoli impietosa, dove le differenze sono estremizzate. Ricchezza e miseria, benessere e degrado, bene e male.

Guardando il film non si riesce mai a biasimare del tutto Arthur/Joker. Lui ci prova veramente a essere una buona persona, ma le circostanze finiscono sempre per deluderlo, spezzarlo, annientarlo. Lui si rialza, Gotham City e il suo passato gli segano le gambe. Ed è qui che la questione diventa morale e si fa inquietante: Todd Phillips riesce a rendere benissimo l’idea che, se solo in una occasione qualcuno avesse teso la mano ad Arthur Fleck, Gotham City non si ritroverebbe a che fare con Joker e con il movimento “Ammazza il ricco” di cui lui finisce per diventare inconsapevolmente il simbolo. In un mix letale di trauma infantile, inesorabile decadenza e costante tormento, lo spettatore assiste alla trasformazione di Arthur in Joker; l’infernale discesa nella follia che spinge a commettere atti criminali non avviene a caso, ma è ben radicata nella realtà.

E sì, c’è della violenza in questo film, ma chiunque se ne lamenti forse non ha prestato abbastanza attenzione (oltre che ad essere ipocrita, ma questa è solo la mia opinione). Non un singolo atto di violenza compiuto da Arthur Fleck è gratuito. Se questo film vuol fare qualcosa, questa non è giustificare la violenza o incitare ad essa. Questo film ci vuole ricordare che non è solo la singola persona, ma è anche e soprattutto la società a far pendere l’ago della bilancia verso il “bene” o verso il “male”. Noi tutti non dobbiamo limitarci a condannare Joker, noi tutti dobbiamo soprattutto prevenire la trasformazione di Arthur in Joker.

E tu hai visto il film? Ti è piaciuto? Ti ha fatto riflettere?
Joaquin Phoenix ti ha convinto? Pensi anche tu che Joker sia un film da Oscar? Forza, parliamone nei commenti!