Lolita, ovvero il grande gioco di prestigio di Vladimir Nabokov

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Una delle cose più belle che possa accadere a un lettore è questa: quando leggere un libro instilla il desiderio di leggerne altri che forse, diversamente, non sarebbero stati presi in considerazione.
A me è successo esattamente questo con il capolavoro di Vladimir Nabokov, “Lolita”. Devo infatti la smania che mi ha portato a leggerlo al romanzo autobiografico di Azar Nafisi “Leggere Lolita a Teheran” e dubito fortemente che, se non fosse stato per la passione con cui la scrittrice iraniana parla dell’opera di Nabokov, avrei mai letto “Lolita”.

Lolita” è un classico della letteratura, un libro la cui trama è ormai nota anche ai sassi soprattutto grazie alla trasposizione cinematografica che Kubrick ne fece nel 1962. Ho intenzione di tralasciare qualsiasi dettaglio sulla trama perché, a prescindere dagli eventi che accadono nello spazio del libro, a essere veramente degna di nota è la fine maestria di Nabokov che, pur portando in scena in modo chiaro e trasparente una vittima e un carnefice, riesce a far simpatizzare il lettore con il secondo, mentre la prima suscita più che altro antipatia e, in ogni caso, sempre e solo in seconda battuta, compassione.

Il professor Humbert Humbert, il carnefice, la voce narrante, colui attraverso il quale il lettore fa esperienza del romanzo, è un pedofilo. La prima parte del libro si concentra sulle sue memorie e sul suo “essere”. Humbert Humbert che dall’Europa approda in America nel 1947 e lì, nella tranquilla cittadina dove si trasferisce per lavorare a un’opera letteraria, quasi per caso, incontra Lolita, la ninfetta dodicenne che gli farà perdere la testa al punto da sposarne (e poi ucciderne, anche se solo indirettamente), la madre pur di gravitarle intorno.

Ecco, Lolita, il cui vero nome è Dolores Haze, la vittima. Una ragazzina che ci viene presentata come maleducata, ribelle, ingrata, smorfiosa; il lettore, per tutta la durata della narrazione, deve fare uno sforzo enorme per ricordarsi che è Humbert Humbert a presentarla così e che, quindi, il racconto è fazioso poiché filtrato attraverso la sua prospettiva distorta. Perché il professor H.H. è un ammaliatore e un abilissimo affabulatore (i giochi di parole di Nabokov sono raffinatissimi) che ci trascina con lui in una introspezione di sé e una retrospettiva dei fatti che solo a tratti e non consapevolmente lasciano trapelare la terribile verità.

Il bisogno atavico, l’urgenza del desiderio; Humbert Humbert incarna, nel suo modo tutto perverso, la necessità umana di colmare disperatamente, in qualunque modo possibile, quei vuoti che ci fanno soffrire (e nel corso della lettura si capirà dove origina il vuoto di Humbert, non che questo sia sufficiente a perdonarlo). H.H. ama Lolita, sì; ma è Lolita davvero Lolita? La risposta è no, e solo quando si inizia a intuire questo si inizia a separare la figura di Lolita da quella di Dolores Haze. Humbert Humbert non vuole Dolores, ma ha bisogno di Lolita. Ha bisogno di possederla completamente, ha bisogno che lei si pieghi per conformarsi all’ideale beatificato che può colmare il suo vuoto.

Se oggi, ascoltando il TG, ci raccontassero questa storia compiangeremmo Lolita e condanneremmo duramente H.H. Ciò che succede e che più di tutto mi ha sconvolta sin dai primi capitoli è che il personaggio di Humbert Humbert suscita una sorta di “tenerezza”, un sentimento che non autorizza il lettore a sentenziare la sua condanna. Ed è esattamente questo il fine gioco di prestigio che la penna di Nabokov è riuscita a compiere sotto gli occhi sconcertati di generazioni di lettori. Perché non importa quanto tu sia preparato, nel momento in cui ti immergi nel mondo di “Lolita” ti accadrà esattamente quello che è accaduto a tutti gli altri: finirai per essere stregato dalla magia di Nabokov.

E tu, hai mai letto Lolita?
Se sì, sono curiosa di sapere cosa ne pensi…
e se no spero di averti trasmesso un po’ di quella passione che mi ha portato a scoprire questo capolavoro della letteratura.

19 comments on “Lolita, ovvero il grande gioco di prestigio di Vladimir Nabokov”

  1. non ho letto questo libro, dato la scarsità di tempo a disposizione e le mille cose che voglio fare dedico pochissimo tempo alla lettura, ma ho apprezzato molto l’entusiasmo che hai espresso parlando di questo romanzo, un vero invito a leggere, con tutte le sue bellissime sensazioni… 😉

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  2. condivido le tue valutazioni e aggiungo che la bellezza della buona letteratura (e forse il suo limite, se vogliamo vederla da un altro punto di vista) e di questo romanzo in particolare è che sollecita e ottiene una partecipazione emotiva e razionale del lettore che trascende il mero giudizio morale e si vincola alla capacità dell’autore di coinvolgerti totalmente nel suo punto di vista. Lo scrittore quando è bravo è come un prestigiatore, assisti con meraviglia al suo “numero” e non ti chiedi dove sia il trucco, troppo affascinato dal risultato per interrogarti oltre.
    ml

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      1. bè, per esempio Simenon che spesso (“l’uomo che guardava passare i treni”, “lettera al mio giudice”) “parteggia” per i suoi protagonisti, autori di delitti, va oltre il giudizio morale o processuale per mostrarti le dinamiche psicologiche e le circostanze sfavorevoli, quasi li assolve o quanto meno sposta l’attenzione su altro dalla morale corrente.

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    1. Sono super contenta di averti incuriosito, ma capisco la problematica. Io, da quando ho scoperto Goodreads, faccio la loro sfida annuale; nel 2020 punto a leggere almeno 36 libri, 3 al mese… sembra facile ma ogni anno che passa il tempo per leggere si riduce :/

      Il film di Kubrick non l’ho visto e, a questo punto, avendo adorato così tanto il libro, mi asterrò dal farlo… difficilmente potrebbe risultarmi bello tanto quanto il romanzo!

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  3. Bell’articolo! Mi hai proprio incuriosito. L’idea di avere empatia con un personaggio, il professore, che in realtà dovresti deprecare per la sua condotta è l’aspetto che mi spinge di più a leggerlo e capire come l’autore ci sia riuscito!

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